La pastorizia
(Con il contributo del Prof. Francesco Di Gasbarro)

In tutto l'arco appenninico la pastorizia è stato un elemento centrale delle attività umane sin dai tempi più antichi. Con il termine di pastorizia si intende l'allevamento degli animali domestici in ambiente naturale e sotto la costante presenza del pastore, che non solo provvede alla trasformazione delle materie prime prodotte, ma li guida al pascolo, li cura e li protegge. Nel Cicolano la tradizione pastorale è ancora viva al giorno d'oggi, sebbene in misura molto ridotta rispetto al passato (anni "60). Durante l'estate i pastori conducono il loro bestiame all'alpeggio, cioè al pascolo in quota, su aree di proprietà comune (usi civici). È una cultura preziosa, ricca di saperi antichi tramandati di padre in figlio, strumento di sopravvivenza in epoche in cui la fame era sempre in agguato.


La pratica millenaria della pastorizia ha lasciato una traccia profonda anche nel paesaggio e nella biodiversità: la ricchezza floristica dei pascoli e la presenza di grandi predatori, sono legati strettamente alla persistenza di attività pastorali tradizionali.

Il brucare degli animali permette la conservazione delle praterie pedemontane e delle radure che altrimenti tenderebbero alla chiusura da parte del bosco; inoltre, associato al calpestio, alla produzione di sterco, ed alternato con il periodo di riposo del pascolo, favorisce il mantenimento di micro-habitat necessari alla sopravvivenza di diverse specie di piante, invertebrati, uccelli e mammiferi. Si tratta tuttavia di un equilibrio molto delicato, perché un carico di pascolo eccessivo può provocare un grave danneggiamento del cotico erboso, con l'esaurimento completo delle erbe e l'erosione del suolo.

La presenza dei grandi predatori è legata anche alla presenza dell'allevamento in montagna: pastori e lupi sono da sempre stati eterni nemici. Oggi la legge garantisce un rimborso agli allevatori che subiscono danni provocati dagli animali selvatici al bestiame, e questo ha contribuito a stemperare l'ostilità verso lupi ed orsi, la cui importanza e vulnerabilitagrave; è ormai riconosciuta e rispettata anche dagli allevatori. L'orso bruno marsicano (Ursus arctos marsicanus) ha una dieta prevalentemente vegetariana (frutta, faggiole, radici e insetti) e difficilmente preda attivamente grossi mammiferi, preferendo nutrirsi delle loro carcasse. Il lupo appenninico (Canis lupus italicus) caccia ungulati selvatici di media taglia (cinghiali, caprioli e piccoli di cervo), che attualmente sono piuttosto diffusi nelle nostre montagne. Una gestione faunistica ottimale dovrebbe sempre favorire l'equilibrio ecologico fra il predatore e questi erbivori; in condizioni di squilibrio, però, sono state purtroppo le greggi a garantire la sopravvivenza di questa specie. E' importante essere consapevoli del contributo che i pastori, loro malgrado, con la loro costante presenza in montagna, hanno dato alla conservazione del lupo, nonostante lo abbiano anche, soprattutto in passato, combattuto aspramente,

Vita quotidiana nello Jaccio

Sono ancora visibili, sui Monti della Duchessa, resti e tracce di numerosi stazzi che ospitavano i pastori nel periodo dell'alpeggio estivo: non solo i muretti a secco che delimitavano i ricoveri, ma anche e soprattutto i numerosi toponimi testimoniano oggi questo uso del territorio: le Caparnie, laccio dei Montoni, Iaccio delle Agnelle, Iaccio della Capra, Capomandro, e cosi via. Lo stazzo (termine italianizzato per il più antico iaccio o jaccio) comprende il ricovero del pastore (la capanna) e il recinto per il gregge (la mandra). In passato, dopo ogni inverno, i pastori sistemavano lo jaccio con materiali di fortuna; al momento attuale, gli stazzi, sebbene mantengano un carattere spartano, sono strutture permanenti e recentemente ristrutturate.


Per tutta la stagione dell'alpeggio, il pastore si alzava di buon ora, mungeva le pecore, filtrava il latte e aggiungeva il caglio (stomaco dell'agnello essiccato) per poi portare il gregge al pascolo. A metà mattina, tornava allo jaccio per produrre il formaggio, lasciando i cani a custodia del gregge. Il latte veniva scaldato nel caldaio di rame (caccamo), sorretto sul focolare da un asse di ferro che poggiava sui due muri laterali all'interno della capanna, mescolato e rotto con un bastone dentato e quindi spremuto sul timpano, per separare il formaggio dal siero. Il formaggio veniva poi modellato in una forma di legno, il cassiccio, mentre il siero veniva utilizzato per produrre ricotta; la rimanenza data in pasto ai cani. La ricotta prendeva forma nell e fuscelle, contenitori conici fatti di giunco mentre il formaggio veniva salato e stoccato per alcuni giorni all'interno della capanna, in attesa che capitasse l'occasione di essere trasportato in paese. Nello jaccio vivevano normalmente 2 pastori, a volte anche tre, con le loro greggi. Compagno inseparabile del pastore è il cane, con una duplice funzione di aiuto nel raduno e nella mobilitazione del gregge, e di difesa dai predatori. Il cane da pastore abruzzese, una razza antichissima, è particolarmente adatto a quest'ultima funzione: nasce nel gregge, vive con le pecore e le considera parte della propria famiglia, sviluppando un senso innato di protezione nei loro confronti. I cani più utilizzati invece per radunare e guidare il gregge, chiamati "cani da tocca", sono in genere di taglia medio-piccola, di aspetto lupoide, e vivono più a contatto con il pastore, con il quale sviluppano una intesa straordinaria, grazie alla quale pochi fischi e gesti sono sufficienti per ottenere l'esecuzione di comandi anche complessi. Ogni pastore teneva con sé 2 o 3 pastori abruzzesi e un cane da tocca.

Agnello si disseta presso una fontana
Una presenza vegetale tipicamente associata agli stazzi sono gli orapi, nome dialettale del Chenopodio buonenrico (Chenopodium bonus-henricus). Si tratta di una pianta simile agli spinaci, che cresce spontanea proprio nei luoghi in cui il lungo stazionare del bestiame porta all'accumulo di sostanza organica, rendendo la terra ricca in sali di azoto. Questa pianta, assieme all'ortica e ad altre, vengono chiamate "piante nitrofile proprio per la loro preferenza per ambienti ricchi di azoto assimilabile. L'orapo è un ingrediente fondamentale della cucina tradizionale cicolana ed abruzzese: viene usato in modo molto simile agli spinaci per le paste ripiene e le minestre.

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